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EDITORIALI

DOTTORI STRESSATI? NON PARLATE AL CONDUCENTE!

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Nel lontano 2011 sulla prestigiosa rivista The Lancet veniva pubblicato un articolo il cui solo titolo si dimostra quanto mai attuale. Sono passati, infatti, quasi 15 anni eppure le cose non cambiano ed anzi sembrano quasi profetiche le parole scritte.

A quei tempi feci un articolo per la Rivista Decidere in Medicina con la quale collaboro da lungo tempo. Il mio editoriale colpì molti e se ne parlo in diverse sedi. Lo ripropongo oggi perchè ancora, a mio avviso, ci invita a riflettere.


Un interessante articolo pubblicato sulla rivista The Lancet affronta un argomento singolare e, se vogliamo, scabroso, ma purtroppo troppo spesso ignorato.  Eppure, è un tema su cui tutti dovrebbero riflettere. 

Vi faccio una domanda.

La salute dei medici e, più in generale, degli operatori sanitari è un problema della Società?

A guardare bene disposizioni, decreti e direttive in materia di organizzazione sanitaria dei nostri “superiori” si direbbe proprio di no. Eppure in altre professioni da cui dipendono le vite altrui (potrei fare l’esempio dei piloti di aerei, ma la cosa si estende perfino dei camionisti) questa preoccupazione esiste eccome! Sono chiare le regole e rigidi i controlli sull’orario di servizio, lo stato di salute, la qualità dell’ambiente di lavoro, e così via.

“Non parlate all’autista” è scritto vicino a tutti i conducenti di mezzi pubblici.

Giusto! Che il mio autista non perda tempo a chiacchierare e guardi piuttosto la strada .. che non voglio avere un incidente! Perché, però, nessuno ritiene che chi si occupa di salute (specie se in condizioni di emergenza) è alla stessa stregua un “conducente” che guida verso il porto sicuro della gestione del problema medico che sta affrontando. Perché non si preoccupano che eccesso di lavoro, mancato riposo, cattiva organizzazione e … stato di stress, possano inficiare la qualità delle cure fornite? 

Secondo molti studiosi (autori di ricerche condotte, ovviamente!, fuori dall’Italia) questo è un problema eccome. Ed è ritenuto così importante da meritare impegno della ricerca universitaria. Negli Stati Uniti, la letteratura degli ultimi decenni ha chiaramente dimostrato che noi medici abbiamo un rischio aumentato per diverse condizioni e patologie. In particolare, e qui vengo all’articolo di cui parlavo, nella nostra “popolazione” c’è  un elevato tasso di suicidio e depressione in confronto alla popolazione generale. L’evoluzione recente dell’organizzazione della Sanità e il cambiamento del rapporto medico/paziente, dicono, non fa altro che contribuire al graduale peggioramento della pressione psicologica e di lavoro.

Secondo un’analisi del 2004 pubblicata sull’American American Journal of Psychiatry, i medici di sesso maschile si suicidano da una a quattro volte di più dei loro “colleghi” maschi non medici, mentre per le dottoresse l’aumento è di 2-3 volte. Negli Stati Uniti, ricerche della Mayo Clinic dimostrano un aumento del tasso di assunzione di farmaci, alcolismo e altri comportamenti pericolosi da parte di medici che cercano così di gestire il proprio stress e il burnout. I disturbi e questo andamento si evidenziano già nel corso degli studi di medicina e peggiorano nel corso degli anni di professione. La cosa non mi sorprende, e se mi guardo indietro posso ricordare alcuni esempi di colleghi che ho conosciuto o incontrato che avevano una evidente sofferenza in questo senso.

Non stiamo parlando di depressione o disturbi legati a problemi personali, ma a quella sofferenza psicologica che deriva dall’esercizio della nostra professione. I risultati di uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association nel 2010 dimostrano importanti differenze negli effetti sul comportamento derivanti da stress professionale e personale. L’indagine ha riguardato oltre 2500 studenti di medicina. Lo stress legato alla professione portava a comportarsi in maniera non professionale, mentre lo stress personale (causato dalla depressione ad esempio) influiva meno sulla qualità e la modalità del comportamento professionale. Di conseguenza, è proprio lo stress derivante dalla propria professione medica che sembra influenzare negativamente il nostro modo di agire nel lavoro e non lo stress in generale. 

Quali sono i motivi? Diverse le ipotesi. Un senso di ingiustizia e frustrazione spesso accompagna le nostre difficoltà ad esercitare la professione a causa di problemi del sistema nel quale lavoriamo. I medici e gli operatori sanitari, poi, sono spesso esposti (soprattutto in certi ambiti, come l’emergenza) a violenza e stress che creano, dicono i ricercatori, una condizione di disordine post-traumatico. Nessuno, però, nella realtà ha tempo e modo di elaborare la cosa (con dei corretti turni di riposo, ad esempio) e talora neanche di accorgersi dell’esistenza del problema. Chi, infatti, conoscete che ha vissuto un evento traumatico legato alla propria professione e che poi ha avuto occasioni di parlarne o di essere aiutato con un supporto psicologico? Nessuno. Siamo, ricorda l’editoriale pubblicato su Lancet, lasciati a noi stessi. E c’è anche il motivo del pudore. In uno studio pubblicato a Gennaio 2011 sugli Archives of Surgery, l’analisi condotta su oltre 7900 chirurghi dimostrava che ogni 16 chirurghi almeno uno aveva pensato al suicidio e che, tra coloro che avevano avuto questi “sintomi”, più del 50% era riluttante a rivolgersi ad uno specialista per essere curato o aiutato. Mi riconosco anche io in questo atteggiamento, eppure mi chiedo: veramente rifiuterei un aiuto dopo una esperienza difficile in Pronto Soccorso se questo mi fosse offerto? Forse no. 


Autore: Gemma C. Morabito, Dirigente medico Pronto Soccorso, AO di Perugia


Questo articolo ha finalità educative per i professionisti del settore. Non costituisce in alcun modo un consiglio medico.


REFERENCES: 1) Sharmila Devi. Doctors in distress. www.thelancet.com Vol 377 February 5, 2011; 2) JAMA 2010; 304: 1173–80; 3) Am J Psychiatry 2004; 161: 2295–302; 4) Arch Surg 2011; 146: 54–62


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